A Tirano al Santuario dell’apparizione giornata diocesana del malato

Omelia del vicario generale, monsignor Ivan Salvadori, nella messa presieduta al Santuario della Madonna di Tirano (So), nella Giornata diocesana dell’Ammalato. Presenti oltre 150 unitalsiani della sottosezioni di Como e di Sondrio.

Domenica 1 settembre si celebra a Tirano (So), al Santuario dell’Apparizione della Vergine Maria, la giornata diocesana dell’Ammalato, coordinata dalle Sottosezioni Unitalsi di Como e di Sondrio. Sono oltre 150 gli unitalsiani presenti a Tirano, equamente divisi fra chi proviene dalla provincia di Como (1 pullman e due pulmini attrezzati) e dalla provincia di Sondrio. Questa mattina, dopo l’accoglienza e il momento riservato alle confessioni, il vicario generale, monsignor Ivan Salvadori, ha presieduto la Santa Messa, portando a tutti i presenti i saluti del vescovo di Como, cardinale Oscar Cantoni. Nel pomeriggio i fedeli reciteranno il Rosario nello speco dell’Apparizione e, dopo l’esposizione e l’adorazione eucaristica, ci sarà il momento della benedizione dei malati. Riportiamo qui di seguito il testo dell’omelia del vicario generale, monsignor Salvadori.

IL MISTERO DELLA MALATTIA E DELLA SOFFERENZA

Nel prendere la parola desidero anzitutto portare a tutti voi il saluto del nostro vescovo, il card. Oscar, a cui ci sentiamo uniti nell’affetto e nella preghiera. In modo particolare porto il suo saluto al personale dell’Unitalsi con i suoi Assistenti – don Andrea Cusini e don Giovanni Corradini – e, soprattutto, a tutti gli ammalati che soffrono nel corpo e nello spirito e che in questo luogo di grazia, si rifugiano sotto il
manto della Vergine perché rivolga anche a loro le parole che agli inizi del ‘500 disse al beato Mario: «bene avrai». In effetti queste semplici parole – «bene avrai» – ci riportano al fatto che chiunque si lascia condurre da Maria al suo Figlio Gesù sperimenta la vicinanza di Dio, insieme al suo amore premuroso e infinito.

Gesù mette in guardia dal pericolo dell’ipocrisia. A contaminare l’uomo non sono gli alimenti o gli oggetti esteriori (cf At 10,28). Le creature del mondo sono doni di Dio, della sua Provvidenza, e tutto ciò che Dio ha creato è buono (cf 1Tm 4,4; Gc 1,17). A contaminare l’uomo – a renderlo ipocrita – è, invece, il cuore. È infatti dall’interno del cuore – dal centro più profondo della persona – che provengono i comportamenti disordinati, come quelli descritti nei versetti finali del vangelo: «impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (cf Mc 7,21-22; Gal 5,19-21). Con ciò Gesù svela il principio decisivo della morale cristiana: l’osservanza esteriore deve muovere da un cuore che pulsa, che sa amare. Il grande Agostino aveva dato a questo principio etico una chiara formulazione:
«Ama e fa ciò che vuoi» . Con questo egli non voleva relativizzare le norme morali. I comandamenti continuavano a conservare, anche per lui, il loro valore. Tuttavia, li riconduceva al loro centro: l’amore. Per questo aggiungeva, subito dopo: «se taci, taci per amore, se parli, parla per amore, se correggi, correggi per amore, se perdoni perdona per amore. Sia in te la sorgente dell’amore, perché da questa radice non ne
può uscire che il bene»
.
Monsignor Ivan SALVADORI

Questo aspetto della vicinanza di Dio è bene sottolineato dalla prima lettura. In riferimento al dono della Legge, Mosè aveva parlato così al popolo di Israele: «Quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io vi do?» (Dt 4,7-8). Queste domande acquistano, per noi cristiani, un senso ancora più profondo. Noi possiamo leggerle con molta più gioia e gratitudine di Israele perché nell’Eucaristia Dio diventa realmente vicino a noi ogni volta che lo invochiamo. Egli si mette nelle
nostre mani e nel nostro cuore. Egli è presente e noi sappiamo dove si fa trovare e ci aspetta. È questo che ci deve muovere e toccare interiormente. Nell’eucaristia – che non a caso è il centro di questa giornata – Dio è vicino, ci conosce e ci attende e, attraverso la presenza premurosa di sua Madre ricorda ad ogni tempo che in lui possiamo realmente trovare quel bene che speriamo: «bene avrai».

Naturalmente non possiamo nascondere il fatto che l’esperienza della sofferenza e della malattia può talvolta oscurare questa consapevolezza di essere amati. Chi soffre – soprattutto se in maniera ingiusta – si pone spesso questa domanda: «dov’è Dio?»; e ancora: «perché la malattia e, con essa, la sofferenza?». Queste domande diventano ancora più acute quando la malattia sopraggiunge in giovane età o quando, improvvisa, stravolge fin dalle fondamenta le relazioni e le condizioni generali di vita. In una delle pagine più toccanti la Bibbia riferisce la vicenda di Giobbe: un uomo giusto che, senza nessuna colpa da parte sua, perde i propri beni, i figli e le figlie e, infine, è colpito – nel suo stesso corpo – da una grave malattia. Mentre Giobbe si interroga sull’origine e sul senso della sofferenza, si presentano nella sua casa tre vecchi conoscenti che – con parole diverse – cercano di convincerlo che la malattia è una punizione di Dio per qualche colpa che egli ha commesso. Il loro punto di riferimento è una dottrina troppe volte espressa dagli uomini e oggi purtroppo ancora diffusa: Dio ripaga il bene con il bene e il male con il male. In realtà, Giobbe capirà – non senza fatica – che la malattia e il male non sono una punizione di Dio. Dio,
infatti, non punisce.

Una risposta più piena alla domanda sul dolore e la sofferenza la troviamo però solo se guardiamo a Gesù e – tenendo sullo sfondo la sua vita – fissiamo lo sguardo sul momento decisivo del Calvario e della morte.
Quello che sorprende, della croce, è che lì il Signore Gesù non offre una risposta “teorica” alla domanda sulla sofferenza, che resta piuttosto, anche per la sua umanità, un mistero insondabile. Egli non risponde, dunque, a parole. Non formula teorie sulla sofferenza. Fa però qualcosa di più: si pone accanto a noi, condivide tutto di noi e, dalla “nostra parte”, ci consola, offre e soffre con noi per donarci infine – in
quanto Dio – la forza di affrontare il dolore. Sulla croce egli dice a noi: «non avere paura. Io sono qui. Ti conosco. Soffro con te e per te. Il tuo dolore è anche il mio dolore, che porto con te e, perfino, per te».
Qui appare evidente che non è Dio a mandarci la sofferenza – perché egli è il Dio della gioia e della speranza – ma è la caducità della vita, talvolta ferita anche dai nostri peccati, a portare con sé l’esperienza della fragilità e della malattia. Non è, dunque, Dio a mandarci la malattia. Anzi, a noi uomini ha dato luce, nel progresso della scienza, per combattere la sofferenza fisica e morale. Anche la scienza e la medicina
sono un segno del suo amore, un suo ammirabile dono per il quale rendere grazie.

A volte Dio concede il dono della guarigione, come leggiamo nei vangeli e come è avvenuto anche in questo luogo e in tanti santuari del mondo. A Dio nulla è impossibile (cf Lc 1,37). Egli può guarire, in un lampo, ogni malattia e, se nella sua volontà, ottiene una guarigione fisica, essa è sempre un segno di amore offerto a tutti: un segno del suo amore e della sua costante presenza in mezzo a noi. Soprattutto, però, il
Signore è venuto a ricordarci che egli, col suo perdono, può guarire l’anima per la vita eterna. È questo, soprattutto, che deve starci a cuore.

In effetti, il vangelo di questa domenica ci ricorda che, al di là della malattia fisica, c’è una malattia ben più pericolosa che intacca il cuore. È l’ipocrisia che nasce dalla mancanza di fede. Che cos’è l’ipocrisia? Potremmo definirla una contraddizione profonda tra il comportamento esteriore – quello che appare – e la verità di sé stessi e dei propri sentimenti. L’ipocrita preferisce fingere che essere sé stesso: ha paura della verità e per questo vive con una maschera sul volto. Egli finge di amare Dio, in realtà ama più la propria immagine; non si cura della verità di sé, ma della maschera con la quale si copre il volto. Ci sono molte situazioni nelle quali si insinua l’ipocrisia. Sui luoghi di lavoro, ad esempio, dove ci si finge amici con i colleghi, mentre la competizione porta – in realtà – a pugnalarli alle spalle. Qualcosa di simile può accadere anche nelle relazioni tra di noi: ci si finge amici, ma per opportunismo, fintanto che le cose vanno bene. Esistono, infine, comportamenti ipocriti anche nella Chiesa, quando la religiosità è
solo una maschera che serve a coprire la propria miseria.

Condividi:

Post correlati