di Lorenzo Salimbeni – Il 9 novembre di 35 anni fa il crollo del muro di Berlino segnò la fine di un’epoca. Terminava la Guerra Fredda, qualcuno giunse a dire che era finita la storia talmente epocale apparve quell’evento. La cortina di ferro che aveva tenuto l’Europa divisa in due per tutto il dopoguerra crollava in uno dei suoi capisaldi e da lì si sarebbe innescato un effetto domino che avrebbe raggiunto entro pochi mesi tutti i regimi comunisti dell’Europa orientale, giungendo fino all’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il pilastro del comunismo mondiale.
A tale processo non scampò nemmeno la Jugoslavia, pur avendo seguito una linea politica autonoma da Mosca e per certi versi più vicina al modello occidentale. L’ambigua politica estera avviata da Josip Broz “Tito” dopo l’uscita dal Cominform aveva reso Belgrado un interlocutore privilegiato per l’Occidente ed aveva conservato comunque un canale preferenziale di natura ideologica con il Cremlino. Era stato interesse degli Stati Uniti sostenere il regime di Tito con aiuti militari ed economici che avevano puntellato la via jugoslava al socialismo altrimenti nota come “autogestione”, ma ora che la Guerra Fredda era finita la Jugoslavia aveva perso il suo ruolo. La morte di Tuto nel 1980 aveva inoltre lasciato il Partito Comunista Jugoslavo privo di una guida altrettanto autorevole e spregiudicata, sicchè stavano riaffiorando le contrapposizioni etniche rimaste latenti per quarant’anni e l’inflazione galoppante avviava una crisi economica difficilmente sostenibile. Le dichiarazioni di indipendenza degli Stati facenti parte della repubblica federale dettero il via a quelle guerre che avrebbero insanguinato l’ex Jugoslavia per tutti gli anni Novanta.
Le stragi e gli spostamenti forzati di popolazioni in nome di una “pulizia etnica” che si consumarono allora riportarono alla luce quanto di analogo era successo alla fine della Seconda Guerra Mondiale nell’Adriatico orientale a scapito della comunità italiana autoctona. Gli ufficiali britannici che avevano assistito nel maggio 1945 alle violenze compiute dai titini nella Venezia Giulia chiesero ai loro superiori che atteggiamento assumere: come si legge nel libro dedicato all’OZNA dal compianto William Klinger, la cinica risposta fu quella di lasciar fare, poichè nel dopoguerra l’alleanza col comunismo sarebbe cessata ed allora sarebbe giunto il momento di denunciare questi ed altri crimini.
Quel momento tardò ad arrivare, ci volle quasi mezzo secolo affinché emergessero gli orrori delle foibe, dei campi di concentramento terrificanti come Borovnica, della strage di Vergarolla e delle violenze che costrinsero 350.000 istriani, fiumani e dalmati a intraprendere la via dell’esodo. Il clamoroso avvicinamento di Tito alle potenze occidentali gli aveva regalato l’impunità e le sofferenze del popolo giuliano-dalmata costretto all’esilio rimasero nell’oblio.
Il crollo del Muro di Berlino rappresentò il ritorno della libertà per i popoli dell’Europa orientale e il ritorno della verità per giuliani, fiumani e dalmati, gli unici italiani ad aver sperimentato gli orrori del totalitarismo di matrice comunista. Si avvio così un percorso di ricostruzione storica che avrebbe portato il 30 marzo 2004 all’approvazione della Legge 92 istitutiva del Giorno del Ricordo, una ricorrenza civile nella quale oggi tutta la comunità nazionale riconosce una pagina di storia patria troppo a lungo colpevolmente dimenticata.