Meno multinazionali e più artigiani e Pmi

Le multinazionali sono gigantesche aziende che posseggono filiali in Paesi di tutti i continenti. Sono entità che producono ingenti utili grazie ai quali possono arrivare ad interferire sulle scelte di governi.

La loro primaria missione è di non perdere le posizioni dominanti acquisite e, quando intravedono l’opportunità, di accrescerle, magari sconfinando in settori merceologici diversi da quelli in cui sono presenti.

Francesca Rizzi, in un documentato articolo per Rankia, un’azienda che monitora il settore finanziario, spiega come «il 65 per cento della capitalizzazione di mercato proviene dagli Stati Uniti, con 59 società su 100 con sede in questo Paese», subito seguito dalla Cina.

Interessante è anche conoscere come le dieci più importanti multinazionali si siano quotate in borsa, che è il contenitore della pappa con cui si nutrono le aziende, spesso a scapito di quel “parco buoi” costituito da piccoli inesperti azionisti golosi d’arricchirsi in breve tempo.

Bene, in cima alla classifica troviamo Apple (tecnologia, Usa), seguita da Aramco Saudita (energia, Arabia Saudita) e, via via a scendere, da Microsoft (tecnologia, Usa), Amazon (commercio, Usa), Alfabeto (tecnologia, Usa), Facebook (tecnologia, Usa), Tentent (tecnologia, Cina), Tesla (tecnologia, Usa), Alibaba (commercio, Cina), Berkshire Hathaway (finanziario, Usa).

«Se analizziamo l’elenco per Paese», spiega ancora Rizzi, «gli Stati Uniti continuano ad aumentare la loro posizione di prima potenza mondiale in termini di numero di grandi aziende, con 61 società quest’anno, rispetto alle 57 dello scorso anno. La Cina, invece, ha ridotto la sua presenza a 11 società. Il Regno Unito e la Francia arrivano a 4 società. La Svizzera mantiene i suoi tre giganti, Nestlé, Roche e Novartis, nella classifica delle più grandi aziende del mondo».

Oggettivamente va contrastato un mondo nelle mani di burattinai, che controllano trust sempre più invasivi a vantaggio di pochi e a scapito di milioni di persone.

Purtroppo da un mondo dell’informazione quasi tutto governato dai burattinai, molti dei quali assidui frequentatori del Forum economico mondiale di Davos, non ci si può certo attendere un aiuto alla comprensione del mefistofelico progetto a cui stanno lavorando e che mira a renderli sovrani di Stati e di popoli.

Occorre quindi un sussulto di coloro che, ragionando con la propria testa, non si sono fatti contaminare dal pensiero unico. Quella parte cioè della società che s’è mostrata più viva e reattiva contro le nefaste politiche della globalizzazione e attenta nel denunciare il perverso accumulo di ricchezza nelle mani di pochi rapaci individui.

Il primo passo per contrastare lo strapotere delle multinazionali è prendere coscienza, come hanno fatto gli agricoltori di tutta Europa, che le istituzioni, a tutti i livelli, non devono rispondere ai loro occulti proprietari, ma ai cittadini.

In un Paese come l’Italia, prevalentemente retto dal lavoro di artigiani e piccoli imprenditori, è fondamentale temperare la presenza dei colossi aziendali.
Monopoli e oligopoli, eliminando la concorrenza, mortificano la creatività imprenditoriale, annullano la libertà di scelta del consumatore e, in qualche caso, finiscono pure a minare la stabilità democratica.

Una stretta alleanza tra consumatori e produttori, per esempio nell’agroalimentare, accelererebbe la decomposizione della globalizzazione. Un’economia a chilometro zero, là dove possibile realizzarla, migliorerebbe la qualità della vita ai più, complicando enormemente quella degli oligarchi.

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