Il 25 Gennaio scorso abbiamo pubblicato un articolo con il titolo: «Stellantis se ne va in Marocco, ma chiede soldi agli italiani». Tra l’altro argomentavamo come per anni la Fiat, oggi confluita in Stellantis, che crea utili soprattutto all’economia francese, fosse riuscita ad imporre che nessun concorrente aprisse uno stabilimento in Italia.
Nello stesso tempo notavamo come l’azienda torinese avesse goduto di lauti finanziamenti pubblici ogni volta che paventava la chiusura di fabbriche con conseguente licenziamento di personale. È giunto il momento – scrivevamo tre mesi fa – di prendere atto che la logica di Elkan, erede degli Agnelli, è quella del “business is business”, ragion per cui lo Stato avrebbe dovuto decidersi ad invitare altre case automobilistiche a venire in Italia a produrre.
Concludevamo il ragionamento con queste parole: pretendere di costruire le vetture che si vendono in Italia è un sacrilegio contro le leggi del commercio internazionale o i regolamenti dell’Europa ?
Ieri, a parte le rituali commemorazioni del 25 Aprile, due giornali davano notizia di quanto sta facendo Stellantis. “Il Sole 24 Ore” titolava: «Mirafiori resta chiusa fino a Giugno. Stellantis: senza ordini e incentivi» e nel sommario spiegava: «Slitta la riapertura dell’impianto inizialmente prevista per il 7 Maggio. A questo si somma la firma della solidarietà che riduce dell’80% le ore lavorate».
Ancora più esplicita “La Verità” che, in prima pagina, precisava: «Ricatto Agnelli: niente soldi? E noi chiudiamo la fabbrica». Lapidario poi il sommario: «L’ex Fiat pretende quello che ha sempre avuto: fondi pubblici, profitti privati e tesoretto nascosto all’estero. È ora di farsi restituire l’Alfa Romeo che le è stata regalata e fare un bando per case disposte a produrre in Italia».
Ci rallegra essere in sintonia con altri colleghi, ma soprattutto ci conforta che si cominci a denunciare i guasti prodotti dalle scelte sbagliate delle multinazionali quando agiscono in regime d’oligopolio e ancor peggio di monopolio.
In pochi anni s’è concesso alla famiglia Agnelli di fare terra bruciata nell’automotive. Di fatto s’è consentito che solo la Fiat sopravvivesse nel mercato automobilistico incorporando marchi come Alfa Romeo, Lancia, Maserati, Fiat Professional, Abarth, Autobianchi e Ferrari e nel contempo finissero in mani straniere aziende come Lamborghini o cessassero la produzione altre come Isotta Fraschini.
Non avere consentito un minimo di concorrenza ha causato tremendi guasti. Oltre a perdere posti di lavoro è stata mortificata quella creatività che il mondo riconosce al made in Italy. Il fatto che solo pochi grandi gruppi sarebbero sopravvissuti e che quindi fosse necessario sostenerne almeno uno italiano è una delle tante falsità divulgate da quel “deep state” di cui Stellantis è parte integrante.
Nel 1970 lo stipendio medio mensile di un lavoratore oscillava tra le 200.000 e le 240.000 lire a fronte del costo di una Fiat Cinquecento che era offerta a 495.000 lire. In pratica con due stipendi un lavoratore acquistava un’utilitaria. Oggi una Panda 1.0 ibrida costa 15.500 euro e lo stipendio medio di un lavoratore è di 1.700 euro netti. Occorrono quindi 9 stipendi per comprare una piccola vettura. Delle due l’una: o cinquant’anni fa gli italiani mediamente stavano meglio dal punto di vista economico, o oggi le automobili sono troppo costose.
Il deep state si sta suicidando? Purtroppo no; comincia però a dare segni di scollamento. Anche se faticoso occorre stimolare le opinioni pubbliche a prendere consapevolezza che non sono il parco buoi in cui le si vogliono trasformare. Devono riprendersi d’animo quelle classi medie che sono il vero presidio delle democrazie.
L’agonizzante globalizzazione, con le fallimentari politiche green sostenute dall’analogo insuccesso dell’auto elettrica, è una spia che fa sperare in un auspicato rinascimento del primato della politica sulla finanza prima ancora che sull’economia.
didascalia: Giulia Spider 1962-1965